IL TRIBUNALE AMMINISTRATIVO REGIONALE PER LA LIGURIA (Sezione Seconda) ha pronunciato la presente ordinanza sul ricorso numero di registro generale 25 del 2015, integrato da motivi aggiunti, proposto da: C. D. S., rappresentato e difeso dagli avvocati Ardo Arzeni e Antonella Canessa, con domicilio eletto presso lo studio dell'avv. Ardo Arzeni in Genova, via Corsica, 8/7 (studio Vassallo); Contro Ministero della giustizia e Ministero dell'interno, entrambi rappresentati e difesi per legge dall'Avvocatura distrettuale dello Stato di Genova, domiciliata in Genova, viale Brigate Partigiane 2; per l'annullamento della decisione della commissione di secondo grado per i procedimenti disciplinari per gli ufficiali ed agenti di polizia giudiziaria pronunciata il 27 ottobre 2014. Visti il ricorso, i motivi aggiunti e i relativi allegati; Visti gli atti di costituzione in giudizio del Ministero della giustizia e del Ministero dell'interno; Viste le memorie difensive; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 21 febbraio 2018 il dott. Angelo Vitali e uditi per le parti i difensori, come specificato nel verbale di udienza; Con sentenza della Corte d'appello di Genova 18 maggio 2010, n. 2511 il dottor C. D. S., vice questore aggiunto della Polizia di Stato, e' stato condannato alla pena di anni 3 e mesi 8 di reclusione per i reati di cui agli articoli 110, 61 n. 2, 479 codice penale nonche' all'interdizione temporanea dai pubblici uffici per cinque anni in relazione ai fatti verificatisi nella notte tra il 21 ed il 22 luglio 2001 presso l'istituto scolastico «Armando Diaz» in occasione del vertice «G8» di Genova. La condanna e' divenuta definitiva a seguito della sentenza della Corte di cassazione n. 38085 del 5 luglio 2012, depositata il 2 ottobre 2012. Pertanto, con atto d'incolpazione del 20-28 febbraio 2013, notificato in data 16 maggio 2013, il Procuratore generale della Repubblica presso la Corte d'appello di Genova - che era ricorrente in Cassazione - ha avviato nei confronti del dottor D. S. il procedimento disciplinare previsto per gli ufficiali ed agenti della polizia giudiziaria dagli articoli 16-18 del decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271 (norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale). Con decisione 7 maggio 2014, depositata in data 13 giugno 2014, la commissione di disciplina per gli ufficiali ed agenti di polizia giudiziaria costituita presso la Corte d'appello di Genova ha condannato il dott. D. S. alla sanzione disciplinare della sospensione dall'impiego per mesi quattro. Tale condanna e' stata confermata dalla commissione disciplinare di secondo grado con decisione del 27 ottobre 2014. Avverso tali provvedimenti, con ricorso notificato in data 29 dicembre 2014, il dott. D. S. ha adito l'intestato Tribunale. A sostegno del gravame il ricorrente ha dedotto otto motivi di ricorso, lamentando tra l'altro, con il quinto ed il sesto motivo di gravame, l'eccessiva durata del procedimento, nonche' la violazione dei termini perentori per l'avvio, lo svolgimento e la conclusione del procedimento disciplinare successivo alla sentenza penale di condanna, previsti in generale dalla legge 7 febbraio 1990, n. 19 per tutti i dipendenti pubblici. Si sono costituiti in giudizio i Ministeri dell'interno e della giustizia, controdeducendo ed instando per la reiezione del ricorso. Alla pubblica udienza del 21 febbraio 2018 la causa e' passata in decisione. Il collegio dubita della legittimita' costituzionale dell'art. 17 del decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271 (disp. att. c.p.p.), nella parte in cui non prevede che, nel procedimento disciplinare nei confronti degli ufficiali ed agenti della polizia giudiziaria iniziato a seguito della pronuncia di una sentenza penale di condanna per i medesimi fatti oggetto di incolpazione, trovino applicazione i termini stabiliti dall'art. 9, comma 2 della legge 7 febbraio 1990, n. 19 per l'avvio e la conclusione del procedimento, per contrasto con gli articoli 3 e 97 primo comma della Costituzione. L'art. 17 decreto legislativo n. 271/1989 disciplina le modalita' di svolgimento del procedimento disciplinare nei confronti degli ufficiali e degli agenti di polizia giudiziaria. La disposizione e' cosi' formulata: «1. L'azione disciplinare e' promossa dal procuratore generale presso la corte di appello nel cui distretto l'ufficiale o l'agente presta servizio. Dell'inizio dell'azione disciplinare e' data comunicazione all'amministrazione dalla quale dipende l'ufficiale o l'agente di polizia giudiziaria. 2. L'addebito e' contestato all'incolpato per iscritto. La contestazione indica succintamente il fatto e la specifica trasgressione della quale l'incolpato e' chiamato a rispondere. Essa e' notificata all'incolpato e contiene l'avviso che, fino a cinque giorni prima dell'udienza, egli puo' presentare memorie, produrre documenti e richiedere l'audizione di testimoni. 3. Competente a giudicare e' una commissione composta: a) da un presidente di sezione della corte di appello che la presiede e da un magistrato di tribunale, nominati ogni due anni dal consiglio giudiziario; b) da un ufficiale di polizia giudiziaria, scelto, a seconda dell'appartenenza dell'incolpato, fra tre ufficiali di polizia giudiziaria nominati ogni due anni rispettivamente dal questore, dal comandante di legione dei carabinieri e dal comandante di zona della guardia di finanza. Se l'incolpato non appartiene alla polizia di Stato, ai carabinieri o alla guardia di finanza, a comporre la commissione e' invece chiamato un ufficiale di polizia giudiziaria appartenente alla stessa amministrazione dell'incolpato e nominato ogni due anni dagli organi che la rappresentano. 4. Nel procedimento disciplinare si osservano, in quanto applicabili, le disposizioni dell'art. 127 del codice. L'accusa e' esercitata dal procuratore generale che ha promosso l'azione disciplinare o da un suo sostituto. L'incolpato ha facolta' di nominare un difensore scelto tra gli appartenenti alla propria amministrazione ovvero tra gli avvocati e i procuratori iscritti negli albi professionali. In mancanza di tale nomina, il presidente della commissione designa un difensore di ufficio individuato secondo le modalita' previste dall'art. 97 del codice. 5. Il procuratore generale presso la corte di appello comunica i provvedimenti all'amministrazione di appartenenza dell'ufficiale o agente di polizia giudiziaria nei cui confronti e' stata promossa l'azione disciplinare». La questione e' innanzitutto rilevante. La rilevanza della questione di costituzionalita' per il giudizio in corso discende dal fatto che il ricorrente ha dedotto l'illegittimita' degli atti impugnati sotto il duplice profilo del grave ritardo con il quale e' stato avviato il procedimento a seguito della conoscenza, da parte del Procuratore generale presso la Corte d'appello di Genova, della sentenza penale definitiva di condanna, nonche' dell'eccessiva durata del relativo procedimento disciplinare. Difatti, la sentenza della Corte di cassazione e' stata pubblicata mediante lettura del dispositivo in data 5 luglio 2012, sicche', secondo il ricorrente, e' a quella data che il Procuratore generale della Repubblica presso la Corte d'appello di Genova - che era parte ricorrente - ne avrebbe avuto notizia, o, al piu' tardi, in data 2 ottobre 2012, all'atto del deposito della motivazione in cancelleria, mentre il procedimento disciplinare a carico del dott. D. S. e' stato avviato con atto di incolpazione in data 28 febbraio 2013, notificato in data 16 maggio 2013: sarebbero dunque inutilmente trascorsi piu' di sette mesi tra la notizia della sentenza irrevocabile di condanna e la notificazione dell'atto di incolpazione. Inoltre, il procedimento si e' concluso con la decisione della commissione di disciplina per gli ufficiali ed agenti di polizia giudiziaria costituita presso la Corte d'appello di Genova assunta in data 7 maggio 2014 e depositata in data 13 giugno 2014: dunque, in ogni caso, anche a voler considerare la data dell'atto di incolpazione (28 febbraio 2013) come quella in cui l'autorita' procedente ha avuto notizia della sentenza irrevocabile di condanna, il procedimento disciplinare avrebbe avuto una durata di oltre un anno, superiore al termine massimo di duecentosettanta giorni (180 + 90) complessivamente a disposizione dell'amministrazione procedente (cfr. Cons. di St., Ad. Plen., 14 gennaio 2004, n. 1), da ritenersi senz'altro abnorme ed irragionevole anche alla luce del fatto che, facendo seguito ad un accertamento penale di condanna, non vi era alcuna necessita' di ulteriori autonomi accertamenti istruttori. Poiche' peraltro ne' la disposizione sospettata di incostituzionalita', che deve necessariamente trovare applicazione alla fattispecie, ne' l'art. 127 codice di procedura penale cui essa fa rinvio, contemplano termini perentori per l'avvio e per la conclusione del procedimento disciplinare a seguito di una sentenza penale irrevocabile di condanna, ne consegue che il giudizio non puo' essere definito indipendentemente dalla risoluzione della relativa questione di legittimita' costituzionale. Ne' risulta possibile a questo giudice addivenire ad un'interpretazione costituzionalmente orientata della norma, giacche' l'univocita' del relativo tenore letterale e la specialita' del procedimento disciplinare ex articoli 16 e 17 disposizioni di attuazione del codice di procedura penale, che non contempla neppure la sanzione della destituzione, comporta che una qualsiasi soluzione ermeneutica, mediante l'applicazione analogica dei termini di cui all'art. 9 della legge 7 febbraio 1990, n. 19 - che si indica come tertium comparationis - si tradurrebbe in un'inammissibile operazione additiva del dettato legislativo, sicche' il tentativo interpretativo deve senz'altro cedere il passo al sindacato di legittimita' costituzionale. Ma la questione pare al collegio anche non manifestamente infondata. Posta la natura amministrativa e non giurisdizionale del procedimento disciplinare ex articoli 16 ss. disposizioni di attuazione del codice di procedura penale (cfr. la sentenza Corte costituzionale, 4 dicembre 1998, n. 394), la normativa in esame produce un'ingiustificata disparita' di trattamento rispetto alle disposizioni vigenti in materia per la generalita' dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche in regime di diritto pubblico ex art. 3 decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 e - segnatamente - rispetto all'art. 9 della legge 7 febbraio 1990, n. 19 (recante modifiche in tema di circostanze, sospensione condizionale della pena e destituzione dei pubblici dipendenti), ai sensi del quale «1. Il pubblico dipendente non puo' essere destituito di diritto a seguito di condanna penale. E' abrogata ogni contraria disposizione di legge. 2. La destituzione puo' sempre essere inflitta all'esito del procedimento disciplinare che deve essere proseguito o promosso entro centottanta giorni dalla data in cui l'amministrazione ha avuto notizia della sentenza irrevocabile di condanna e concluso nei successivi novanta giorni. [...]». E' appena il caso di osservare come la rilevata disparita' di trattamento sussista in realta' anche rispetto alla normativa - cfr. l'art. 55-ter, comma 4 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 - dettata in materia di dipendenti delle amministrazioni pubbliche in regime di diritto privato, normativa che pero' non puo' assumersi a tertium comparationis, stante l'elemento differenziatore costituito dalla natura privatistica del relativo statuto giuridico (articoli 2 e 5 comma 2 del decreto legislativo n. 165/2001). Orbene, la giurisprudenza costituzionale in materia si e' evoluta «in uno sviluppo coerente e dall'iniziale affermazione che esigenze di civilta' giuridica richiedono che l'azione disciplinare deve essere promossa senza ritardi ingiustificati, o peggio arbitrari, rispetto al momento della conoscenza dei fatti cui si riferisce (sent. n. 145 del 1976), e' approdata a piu' pregnanti puntualizzazioni allorche' ha ritenuto che la sperimentabilita' sine die del procedimento disciplinare costituisce di certo un eccesso di tutela del prestigio, nella specie, della istituzione universitaria, cedevole a fronte delle garanzie dovute al singolo (sent. n. 1128 del 1988); tali garanzie - ha ulteriormente precisato la Corte (nella sentenza n. 264 del 1990) - costituiscono espressione di un principio generale ricollegabile all'esigenza che i procedimenti disciplinari abbiano svolgimento e termine in un arco di tempo ragionevole, onde evitare che il pubblico dipendente rimanga indefinitivamente esposto alla irrogazione di sanzioni disciplinari». Cosi' si e' espressa la sentenza della Corte costituzionale 11 marzo 1991, n. 104, che ha dichiarato l'illegittimita' costituzionale del combinato disposto degli articoli 20, 64, 65, 72 e 74 della legge 31 luglio 1954, n. 599, nella parte in cui non prevedono che nel procedimento disciplinare nei confronti di sottufficiali delle Forze armate, promosso successivamente a sentenza penale di proscioglimento o di assoluzione passata in giudicato per motivi diversi dalle formule «perche' il fatto non sussiste» o «perche' l'imputato non lo ha commesso», trovino applicazione i termini stabiliti nell'art. 97 del decreto del Presidente della Repubblica 10 gennaio 1957, n. 3, terzo comma, prima parte, nell'art. 111, ultimo comma, del decreto del Presidente della Repubblica 10 gennaio 1957, n. 3 e nell'art. 120, primo comma, del decreto del Presidente della Repubblica 10 gennaio 1957, n. 3. La citata sentenza Corte costituzionale n. 104/1991 ha censurato la lesione del canone di uguaglianza e ragionevolezza da parte di una normativa che, per i dipendenti pubblici militari - e a differenza dei dipendenti pubblici civili (la cui normativa, in allora contenuta nel decreto del Presidente della Repubblica n. 3/1957, e' stata assunta a tertium comparationis) - non prevedeva termini perentori per l'avvio e lo svolgimento del procedimento disciplinare promosso successivamente a sentenza penale di proscioglimento o di assoluzione passata in giudicato. Giova osservare come, nel caso del giudizio a quo (la questione di legittimita' costituzionale, sollevata con ordinanza di questo Tribunale amministrativo regionale 5 luglio 1990, concerneva un ricorso notificato in data 23 aprile 1988 avverso una sanzione disciplinare irrogata con decreto ministeriale 17 febbraio 1988), non fosse invocabile come tertium comparationis la normativa recata dall'art. 9, comma 2 della legge 7 febbraio 1990, n. 19, vuoi perche' successiva alla fattispecie concreta, vuoi perche' il procedimento disciplinare conseguiva - in quel caso - ad una sentenza di proscioglimento per intervenuta prescrizione, piuttosto che - come nel caso di specie - di condanna (come espressamente previsto dall'art. 9, comma 2, legge n. 19/1990 citato). Dunque, per le medesime argomentazioni contenute nella sentenza Corte costituzionale n. 104/1991, deve ritenersi che la mancata previsione, ad opera dell'art. 17 disposizioni di attuazione del codice di procedura penale, di termini perentori, a pena di decadenza dal potere disciplinare, sia per l'avvio che per la conclusione del procedimento disciplinare nei confronti degli ufficiali e degli agenti di polizia giudiziaria a seguito di una sentenza penale irrevocabile di condanna concreti un'ingiustificata disparita' di trattamento rispetto allo statuto di tutti gli altri dipendenti pubblici, come espresso dall'art. 9, comma 2 della legge n. 19/1990, in contrasto con i principi di eguaglianza e di ragionevolezza sanciti dall'art. 3 della Costituzione. Ne' d'altra parte tale disparita' di trattamento trova adeguata giustificazione nelle peculiarita' proprie dello status di agente od ufficiale di polizia giudiziaria, che opera alle dipendenze e sotto la direzione dell'autorita' giudiziaria, posto che si tratta di una dipendenza meramente funzionale e non organica (cfr. gli art. 109 Cost. e 56-59 c.p.p.), e che neppure la massima subordinazione gerarchica, rinvenibile nello status di militare delle Forze armate, esonera l'ordinamento giuridico dal rispetto di termini perentori per l'avvio e la conclusione del procedimento disciplinare che abbia ad oggetto fatti in relazione ai quali si e' pronunciata l'autorita' giudiziaria con sentenza irrevocabile (cfr. l'art. 1393, comma 4 del decreto legislativo 15 marzo 2010, n. 106, recante il codice dell'ordinamento militare, nonche' la sentenza Corte costituzionale n. 104/1991, § 4). Inoltre, l'art. 17, decreto legislativo n. 271/1989 non appare conforme nemmeno all'art. 97 della Costituzione, nella parte in cui sancisce il principio del buon andamento della pubblica amministrazione. Il principio in esame rappresenta la summa di molteplici criteri che reggono l'attivita' amministrativa, tra i quali l'art. 1 della legge generale sul procedimento amministrativo 7 agosto 1990, n. 241 annovera espressamente l'economicita', che si traduce nell'esigenza di non aggravare il procedimento se non per straordinarie e motivate esigenze imposte dallo svolgimento dell'istruttoria (art. 1, comma 2, legge 7 agosto 1990, n. 241). La speditezza dell'azione amministrativa e la rilevanza del fattore temporale nell'ambito del procedimento amministrativo sono infatti espressamente riconosciuti dal legislatore come valori meritevoli di tutela, proprio in quanto declinazioni del principio costituzionale di buon andamento, tanto cio' e' vero che la legge generale sul procedimento amministrativo 7 agosto 1990, n. 241 da un lato impone la fissazione generalizzata di termini massimi di durata del procedimento amministrativo (art. 2), dall'altro, sulla falsariga della legge 24 marzo 2001, n. 89 sull'equa riparazione per l'irragionevole durata del processo, prevede l'obbligo per le pubbliche amministrazioni di risarcire il danno ingiusto causato dall'inosservanza, dolosa o colposa, dei termini di conclusione del procedimento (art. 2-bis). A cio' si aggiunga che, se il procedimento amministrativo e' la sede naturale nell'ambito della quale deve avere luogo il bilanciamento e la comparazione degli interessi contrapposti, allora deve trovare ivi adeguata considerazione, mediante la fissazione di termini perentori ad opera del legislatore, anche l'esigenza dell'incolpato ad un tempestivo e sollecito svolgimento del procedimento disciplinare, onde non rimanere a tempo indefinito esposto all'irrogazione delle relative sanzioni (cfr., sul punto, Corte costituzionale, n. 104/1991 cit.). Esigenza che - a ben vedere - coincide con l'interesse pubblico dell'amministrazione alla tutela della propria immagine e del proprio prestigio, che possono restare offuscati dal mancato o anche soltanto dal ritardato esercizio del potere disciplinare nei confronti del dipendente riconosciuto responsabile di fatti penalmente rilevanti con sentenza irrevocabile. Orbene, l'omessa previsione di un termine massimo di avvio e di conclusione del procedimento disciplinare in esito a condanna penale passata in giudicato pare contrastare con il principio di buon andamento della pubblica amministrazione, sotto i profili della economicita' e della speditezza dell'azione amministrativa. In conclusione il collegio, per le ragioni sopra esposte, ritiene rilevante e non manifestamente infondata la questione di costituzionalita' dell'art. 17 del decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271 (disp. att. c.p.p.), nella parte in cui non prevede che, nel procedimento disciplinare nei confronti degli ufficiali ed agenti della polizia giudiziaria iniziato a seguito della pronuncia di una sentenza penale di condanna per i medesimi fatti oggetto di incolpazione, trovino applicazione i termini stabiliti dall'art. 9, comma 2 della legge 7 febbraio 1990, n. 19 per l'avvio e la conclusione del procedimento, per contrasto con gli articoli 3 e 97 primo comma della Costituzione. Resta sospesa ogni decisione sul ricorso in epigrafe, dovendo la questione essere demandata al giudizio della Corte costituzionale.